COME MAI I GIOVANI FANNO FATICA A TROVARE LAVORO? 

03.03.2022

Il lavoro c'è, ma le aziende non scovano « profili adatti». La formazione conta, ma gli studenti si ostinano a disertare le discipline tecniche-scientifiche. O ancora: le posizioni di lavoro ci sono, e stabili, ma i «bamboccioni» si rifiutano di accettare retribuzioni di ingresso inferiori alle proprie aspettative. È il repertorio di ordinanza che si legge sul cosiddetto mismatch, il divario tra le richieste del mercato del lavoro e le competenze offerte dalle nuove generazioni. Ma siamo proprio certi che sia esattamente così? Io...ho qualche, anzi, diversi dubbi. Vi spiego il mio punto di vista.

Secondo dati Ocse, l'organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico, in Italia circa il 40% dei lavoratori non sono compatibili con le qualifiche del loro impiego . Ma la sorpresa è che la quota di sottoqualificati (20%) è praticamente identica a quella dei sovra-qualificati (19%): lavoratori giovani, e meno giovani, con talenti che non riescono a essere assorbiti o valorizzati dal sistema delle imprese italiane. Per un professionista al di sotto delle attese dei datori di lavoro, ce n'è uno che si scontra su un sistema incapace di premiarlo.

La prima tesi è che le nostre imprese siano inadatte a sfruttare il potenziale dell'offerta di lavoro, soprattutto fra neolaureati e candidati giovani. «In Italia scontiamo una struttura produttiva e una domanda di lavoro poco qualificata, a fronte di un'offerta di lavoro molto qualificata. È questo il vero mismatch», spiega al Sole 24 Ore Giovanna Fullin, docente di sociologia dei processi economici e del lavoro alla Bicocca di Milano. Le cause del divario? Sul basso livello degli impieghi offerti incide, prima di tutto, la dimensione media delle nostre imprese e il loro scarso slancio innovativo. Secondo dati Istat, in Italia si contavano 4.390.911 imprese nel 2016. Quelle di taglia micro, con un numero di dipendenti inferiore al 10, risultano 4.180.870: il 95,2% del totale, contro le appena 3.787 imprese di grande dimensione. Lo 0,08% del totale. «Si tratta di società che, tendenzialmente, non hanno interesse ad assumere candidati di altro profilo - dice Fullin - Da qui anche i bassissimi valori degli investimenti nazionali in R&D, la ricerca e sviluppo. Un settore che garantirebbe la crescita dell'occupazione di qualità». Senza contare un altro gap, ma nel settore pubblico: la diminuzione di offerte di impiego nella Pa, che all'estero viene considerata uno tra i bacini privilegiati per un'occupazione di livello medio-alto. «All'estero la domanda di lavoro qualificata arriva soprattutto dalla Pa - dice - Qui, invece, le opportunità di lavoro anche nel pubblico impiego non hanno fatto altro che contrarsi».

Reschigliano di Campodarsego, in provincia di Padova - più o meno dove si trova la Antonio Carraro, l'azienda produttrice di trattori che poco più di un anno fa aveva detto a Il Gazzettino di "non riuscire a trovare 70 dipendenti nonostante si offrisse un contratto di tutto rispetto", salvo poi ricevere più di 5mila curriculum in pochi giorni dopo l'articolo pubblicato sul quotidiano veneto - Stefano Brigato, titolare di uno storico panificio insieme al cognato Guglielmo Peruzzo, aveva denunciato a Il Gazzettino di cercare un apprendista panettiere senza successo nonostante la proposta di un contratto regolare a tempo pieno a 1400 al mese. Il problema? Secondo Brigato, «sempre meno giovani sono disposti ad affrontare i faticosi orari tipici di questo lavoro. Preferiscono lo sballo e il divertimento anziché il sacrificio».

Sempre in quei giorni, sempre a Il Gazzettino, Mirco Beraldo, titolare dei Cantieri Nautici Beraldo a Ca' Noghera a Venezia, raccontava le difficoltà di reclutamento di un fabbro, un meccanico e un geometra nonostante offrisse un contratto regolare, un buono stipendio e formazione interna in caso di candidati non professionalmente qualificati. «Non sappiamo più da che parte girarci», spiegava il titolare dell'azienda al Corriere del Veneto, che aveva ripreso la notizia. «Quando diciamo che si dovrà lavorare il sabato e la domenica, la maggior parte rinuncia. C'è chi mi ha detto che no, non poteva, perché lui nel fine settimana deve andare con la moglie al centro commerciale». Oppure, proseguiva Beraldo, c'è chi in sede di colloquio è interessato esclusivamente all'ammontare dello stipendio e al periodo di ferie.

Credo che generalizzare non serva a nessuno. E' vero che talvolta le persone in cerca di un'occupazione, manifestano scarso senso di responsabilità -verso se stessi e verso gli altri- ma smettiamola con la retorica dei giovani schizzinosi che rifiutano offerte congrue di lavoro e non vogliono sacrificarsi. Evitiamo che tutta questa retorica diventi la chiave di lettura di un fenomeno più complesso. Non serve oscurare le criticità che queste storie sollevano da tutti i punti di vista, quello degli imprenditori e quello dei lavoratori, e che abbracciano più piani, economico, sociale, culturale esistenziale: la questione della formazione, il mancato incontro tra domanda e offerta, le condizioni di lavoro, il bilanciamento tra vita e lavoro, i canali e i criteri di reclutamento utilizzati e le forme di ingresso nel mercato del lavoro e, più in generale, il ruolo che come paese attribuiamo ai giovani all'interno della nostra societàCome ha spiegato Alessandro Rosina, Professore ordinario di Demografia e Statistica sociale all'Università Cattolica di Milano e coordinatore del "Rapporto giovani" che l'Istituto Toniolo pubblica dal 2012, "ancor più oggi che in passato le nuove generazioni vanno intese come il modo attraverso cui la società sperimenta il nuovo del mondo che cambia. Se ben preparate e messe nelle condizioni adeguate sono la componente della società maggiormente in grado di mettere in relazione le proprie potenzialità con le opportunità delle trasformazioni in atto. Viceversa, i giovani rischiano di essere i primi a veder scadere le proprie prerogative, a trovarsi maggiormente esposti con le loro fragilità a vecchi e nuovi rischi". 

Secondo quanto rilevato dal bollettino Excelsior, a cura di Anpal e Unioncamere, il 31% delle aziende non è riuscita a soddisfare una richiesta di 1,2 milioni di contratti per figure tecniche, scientifiche e ingegneristiche, programmati nei primi tre mesi del 2019. Andando a leggere nel dettaglio i dati del rapporto Excelsior, si scopre come gran parte della richiesta di questi contratti riguardasse figure poco qualificate. Sugli oltre 441mila contratti che si prevedeva di attivare lo scorso gennaio, solo il 2% riguardava figure altamente specializzate. Quasi una posizione su quattro riguardava addetti alle pulizie, alle vendite, alla ristorazione. "La domanda di tecnici non è, insomma, stringente come dovrebbe trasparire dagli annunci", commentava su Il Sole 24 Ore Alberto Magnani.

Inoltre, secondo l'indagine di Eurostat pubblicata all'inizio di aprile, l'Italia è il paese con il più alto numero di Neet (persone "Not in education, employment or training", cioè non impegnate nello studio, né nel lavoro né nella formazione) all'interno dell'Ue. Nel 2017, il 29,5% dei giovani italiani tra i 20 e i 34 anni non studiava, non lavorava e non cercava lavoro.

La genesi di questa situazione va ricercata nelle riforme che si sono susseguite dalla seconda metà degli anni Novanta in poi che, più che mirare a migliorare la condizione delle nuove generazioni nel mondo produttivo, hanno puntato soprattutto a consentire alle imprese di offrire contratti al massimo ribasso e con facile disimpegno verso i neo assunti, spiegano la sociologa Chiara Saraceno e il demografo Alessandro Rosina: «Invece che creare crescita e sviluppo, miglioramento di prodotti e servizi attraverso il capitale umano e la capacità di innovazione delle nuove generazioni, le aziende sono state incentivate a resistere sul mercato tenendo basso il costo del lavoro e sfruttando il più possibile i nuovi entranti. Si è preferito così prendere il giovane disposto a farsi pagare di meno che quello con potenzialità su cui investire per migliorare produttività e competitività dell'azienda».

In questo modo - prosegue il docente di demografia, autore del recente libro dal titolo "Il futuro non invecchia" - è stato favorito un sistema che si è avvitato verso il basso, producendo allo stesso tempo scarse opportunità per i giovani, poca crescita e crescenti diseguaglianze sociali e generazionali: «Il fatto di detenere il record in Europa della percentuale di giovani che vorrebbero lavorare ma non trovano occupazione ne è la conferma. La crisi economica ha poi peggiorato questa situazione».

«Con la crisi e la crescente competizione sui bassi salari dei paesi emergenti - aggiunge Chiara Saraceno - questa soluzione ha mostrato tutta la sua fragilità. E a pagarne il costo sono stati appunto soprattutto coloro che stavano per entrare nel mercato del lavoro, i giovani, tanto più se a bassa istruzione o con qualifiche non spendibili su un mercato del lavoro insieme asfittico e in via di trasformazione».

Il problema è a monte e riguarda il ruolo che il nostro paese vuole dare ai giovani. Oggi più che in passato - ha commentato sempre Rosina in un panel dal titolo "Giovani e lavoro: il futuro negato" nel corso dell'ultima edizione del Festival Internazionale del Giornalismo di Perugia - attraverso le nuove generazioni le società sperimentano le innovazioni di un mondo in costante trasformazione e «l'Italia è un paese che non ha ancora deciso cosa vuole essere nel XXI secolo». In funzione delle grandi trasformazioni di questo secolo e di quello che il paese può fare di positivo e migliore anche rispetto agli altri paesi in questo secolo, l'Italia dovrebbe decidere in che settori e attraverso quali strumenti svilupparsi. In questa cornice, le nuove generazioni dovrebbero essere la risorsa principale per realizzare i propri obiettivi nei prossimi 10 o 20 anni, invece, prosegue Rosina, il paese naviga a vista, le aziende navigano a vista e i giovani si adattano alla situazione che trovano.

"Il futuro appartiene a coloro che credono nella bellezza dei propri sogni".

(Eleanor Roosevelt)

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